sabato 1 novembre 2014

Buio







Sì.
Potrei farlo.
Potrei ancora farlo.
Chi potrebbe impedirmelo, dopotutto? I corpi senza vita dell’intero equipaggio?  
Chissà che spasso sarebbe: tentare di fermami per ben due volte, fallendo miseramente. In fin dei conti hanno già fallito quando erano in vita, non oso immaginare quanto possano fare da morti.
Buio, solo questo riesco a percepire con tutti i miei cinque sensi. Intrappolato in questa dannata gabbia di metallo non sono in grado percepire nient’altro, se non la pesantezza dell’aria sempre più priva di ossigeno e che a breve non sarà altro che la causa della mia morte.
Credo di capire adesso cosa provò Bolt – il mio porcellino d’india che possedevo all’età di nove anni – quando, per un sadico dispetto, mio fratello lo rinchiuse all’interno di un barattolo di vetro che poi sigillò ermeticamente: la povera bestiola inizialmente osservò dall’interno quel dannato di Jonas, forse anche con fare scocciato come a volergli dire di smetterla con quei giochetti da emerito idiota e che si decidesse a crescere; dopo qualche minuto iniziò ad agitarsi e a cercare di arrampicarsi sulla consistenza vitrea del barattolo, inutile dire quale insuccesso fu la sua ardua impresa; dopo un giorno e mezzo morì. Io non vidi nulla di tutto questo, ero al camping estivo di Juneau, ma quello stronzo non mancò di descrivermi ogni singola scena non appena rincasai. Mi prese con sé prima che potessi chiudere la porta d’ingresso, avevo ancora in testa il cappellino dei Malamute Strikers – quello con il numero 6, autografato da Colin W. Hosmett – e il borsone in mano. Mi condusse nella sua stanza dove, in bella vista sul ripiano della scrivania, vi era il barattolo con il corpo privo di vita di Bolt. Cominciai a piangere mentre Jonas mi descriveva dettagliatamente l’agonia provata dal mio piccolo amico; gli gridai di smetterla e che lo odiavo ma più la mia voce aumentava di volume più lui si divertiva a torturarmi psicologicamente.
«Void!»
Un urlo lontano e distorto mi riporta improvvisamente in questo schifoso buco senza uscita. Un barattolo di vetro chiuso ermeticamente e un criceto al suo interno che, invano, cerca una via di fuga.
C’è una sostanziale differenza però tra me e il caro, vecchio, piccolo Bolt: lui non aveva questo gioiellino che rimiro in tutta la sua bellezza tra le mie mani. Il calcio in legno, la canna lucida, il foro alla sua estremità, la sicura posta sulla parte laterale e, ovviamente, il grilletto immobile ma al tempo stesso fremente di essere premuto.
È stato frutto della mia immaginazione? Ho davvero sentito qualcuno pronunciare il mio cognome? Sembrava così reale e al tempo stesso illusorio, eppure tendendo l’orecchio non riesco a sentire altro che il silenzio: opprimente come l’oscurità che circonda il Triton 617 e pressante come l’abnorme quantità di acqua che lo sovrasta a 1988 metri di profondità. Un abisso che ha sempre teso le sue braccia tentacolose, come un Octopus di dimensioni enormi, verso questo sottomarino dentro cui non è rimasta più alcuna traccia di vita. E c’è riuscito, da brava fottuta piovra gigante, a trascinarci a fondo. Sempre più sotto… sempre più sotto… sempre più sotto…
«Devo uscire di qui» sussurro mentre osservo il velo nero e liquido oltre la calotta di vetro della plancia di comando, all’estremità del sommergibile. Vorrei dare a me stesso una fievole speranza che tutto possa sistemarsi, ma è uno sforzo totalmente inefficace e me ne rendo conto quando vedo che non c’è nulla che i miei occhi possano vedere: solo vuoto. Vorrei anche solo osservare i banchi di pesci che con simultaneità, alla pari di un gruppo di bravissime atlete di nuoto sincronizzato, guizzano attorno a questo relitto. Eppure non posso, c’è solo un enorme nulla e dovrò conviverci fin quando…
Passi.
Ritmici e possenti, come ticchettii di un orologio dimenticato in un antro cupo e silenzioso. O come una sveglia ingoiata da un grande coccodrillo. Sì, magari sarà lui… qualcuno che sta venendo a prendermi, come il coccodrillo che bramava l’altra mano di Capitan Uncino. Vogliono riportarmi nuovamente lì, in mezzo agli altri. In quel mattatoio.
«Void!»
Ancora una volta la voce si ripercuote nei corridoi metallici del Triton 617, arrivando verso di me in maniera distorta. Il mio cuore accelera i suoi battiti, i quali come per magia trovano un loro ritmo sincrono con il rumore dei passi che si avvicinano sempre di più.
Corre.
«Void! No!»
Pigio il piccolo pulsante presente sulla parte laterale dell’arma, facendo scattare la molla che mi permette di estrarre il caricatore. Lo osservo, sorrido e scuoto la testa. Riderei a crepapelle come una iena impazzita se potessi, solo per appurare di essere totalmente fottuto. Come sospettavo, dopotutto… che gran bella botta di fortuna! Nessun proiettile, solo uno in canna.
«Merda!» urlo e in maniera del tutto volontaria, do una testata sul freddo muro di ferro; non riesco a dosare la mia forza in preda al panico e allo sconforto, e solo dopo aver effettuato questo gesto mi rendo conto di come la mia lucidità mentale stia andando in frantumi.
Frantumi… ma certo.
Comincio ad avvertire un bruciore lancinante all’occhio destro che chiudo di scatto e stropiccio con un pugno chiuso. Il sangue ha cominciato a scivolare giù dalla ferita apertasi con violenza sulla mia fronte: fluido, caldo e rosso scarlatto come fosse lava.
Sangue. Non riesco ancora a dimenticare come ne fui ricoperto da capo a piedi prima che succedesse tutto.
Io non sarei dovuto neanche essere qui, maledizione! Sarei dovuto essere con la miei cari a festeggiare il giorno del Ringraziamento.
Ricordo alla perfezione il profumo inebriante del tacchino ripieno in forno, l’aria di festa che si riusciva a percepire nell’aria; niente ospiti, solo io e la mia famiglia. Eppure un ospite arrivò, indesiderato da tutti a partire dal sottoscritto: una telefonata. Dall’altra parte del ricevitore vi era il mio diretto superiore che forse non aveva ben capito cosa significasse avere una settimana di congedo.
‘Non posso, signore’ gli dissi. ‘È il giorno del Ringraziamento e…’
‘Muovi il culo, Charlie! Ti voglio al molo trentasette del porto di Sitka, in gran numero sono già lì e tu sei l’unico macchinista nei dintorni. Smettila di pensare a quella fottuta festa e fai in fretta.’
E feci in fretta. Per correggermi, feci più in fretta che potevo. Prima avrei finito, prima sarei tornato a casa. Quanto mi sbagliavo. Nessuno di noi poteva immaginare che quel sottomarino ormeggiato sarebbe diventata una bara sepolta negli abissi.
Non appena poggiai piede sulla pista d’atterraggio del Rocky Gutierrez Airport fui colto da uno strano senso di ansia mista a paura, ma non diedi ascolto alla mia parte all’erta che mi aveva già avvertito. Respirai a pieni polmoni l’aria gelida che il clima degli ultimi giorni di Novembre era pronto a donarmi, chiusi gli occhi e mi diressi con il mio bagaglio a mano verso la stazione degli autobus. Il porto non distava molto, appena una decina di chilometri… più che sufficienti però a far emergere nuovamente quella vocina che mi intimava di tornare a casa e mandare al diavolo il mio superiore. Ancora una volta non gli diedi ascolto, sebbene domande multiple si presentassero incessantemente all’interno della mia testa, veloci come dei flash di una schiera di fotografi alla prima nazionale di un acclamatissimo film di Hollywood. Perché avevano necessario bisogno di me, nonostante avessi preso un periodo di congedo? Per quale assurdo motivo era richiesta urgentemente la mia presenza? Era forse successo qualcosa? Un evento di cui non avrei dovuto sapere nulla attraverso le controllatissime reti telefoniche? O forse era…
Non potei finire l’ennesima domanda in quanto mi ritrovai schiacciato contro il sedile posto di fronte al mio. Una frenata improvvisa da parte dell’autista e successivamente uno schianto violento ne furono la causa. Poi arrivò la prima esplosione a un centinaio di metri dalla posizione in cui il bus si era schiantato. Panico. Questo fu ciò che provai insieme agli altri cittadini i quali iniziarono ad urlare e a correre all’impazzata. Non riuscii a scorgere niente se non il rosso delle fiamme di una seconda esplosione più distante ma che mi scombussolò più di quanto non fece quella più vicina.
Mi chiesi cosa stesse succedendo e tutt’ora, mentre osservo quella patina di tenebra appena oltre il vetro, non sono riuscito a scoprire quale fosse la risposta.
Corsi a perdifiato, con una voglia immane di abbandonare il mio borsone e aumentare quindi la velocità. Mi diressi verso il porto senza badare alla gente che correva all’impazzata come se la loro città fosse appena stata reduce di un attacco missilistico. Da quel che potevo saperne non ero andato lontano dal vero. Stavo per arrivare a destinazione, quando un tir – guidato da qualcuno che aveva di certo dimenticato l’esistenza di altri due pedali alla sinistra dell’acceleratore – mi mancò di un singolo metro, evitando uno schianto che mi avrebbe di certo ucciso sul colpo. Dio solo sa quanto in questo momento avrei preferito finire sotto quel camion che trasportava materiali infiammabili, ma il dannato destino si è divertito a prendersi gioco di me, facendomi scostare all’ultimo istante e bloccandomi di netto non appena il mezzo impattò contro la stazione di rifornimento all’angolo della strada, la quale esplose in una frazione di secondo. L’onda d’urto, ustionante e oleosa, mi investì in pieno sbalzandomi da dove mi trovavo: a mente lucida mi rendo conto che se non avessi avuto il borsone ad attutire il colpo, con molta probabilità la schiena mi si sarebbe spezzata come un ramoscello secco sotto la suola di uno stivale. L’aria era diventata irrespirabile, tra l’elevata temperatura che si contrapponeva al gelo tipico dell’Alaska e il fetore del gasolio che impregnava ogni singola cosa. Sentii che stavo per perdere i sensi ma mi imposi di non farlo, altrimenti sarei rimasto lì e di certo non mi sarei più risvegliato. Mi rialzai a fatica, abbandonando il borsone e riprendendo a camminare inizialmente come un ubriacone scombussolato dall’alto tasso alcolico nelle sue vene, per poi prendere velocità e ricominciare a correre. Urla, fumo e detriti. Questo era ciò in cui si stava trasformando Sitka, e in quel momento pensai che non sarei neanche stato testimone di un degrado simile… che avrei perso la vita prima di raggiungere il molo. Un timore mi assalì improvvisamente: e se fossi arrivato a destinazione e non ci sarebbe stato nessuno ad aspettarmi? Era una delle infinite alternative che stavano piombando all’interno della mia mente come piccoli frammenti di meteorite. Accelerai il passo e finalmente raggiunsi il molo. Non ebbi neanche il tempo di chiedere cosa stesse succedendo. Semplicemente mi cinsero un paio di braccia e mi ritrovai all’interno del Triton 617, pronto all’immersione.
Non riuscii a capire molto tra il caos generale dell’equipaggio. Sapevo solo che non volevo andare con loro; volevo tornare a casa per constatare se la situazione vista a Sitka fosse un caso isolato o no. Le uniche cose che sentii furono termini scollegati gli uni dagli altri senza un preciso ordine.
Creature.
Caos.
Grand Island.
Nuova Zelanda.
Minaccia.
Dio.
Dio, eh? Dov’era Dio quando perdemmo improvvisamente energia e il Triton si era ridotto semplicemente ad un pezzo di metallo sott’acqua che si stava lentamente inabissando? Dov’era Dio quando la luce si spense totalmente impedendoci di constatare a quale profondità fossimo arrivati? Dov’era quando chi schiantammo al suolo? Dov’era quando, constatando che le comunicazioni erano state interrotte, mi feci prendere dal panico e rubai la pistola del mio superiore puntandogliela contro? Dove si trovava quando premetti il grilletto? Era lì con noi quando mi macchiai le mani uccidendo anche gli altri membri del sottomarino?
Tutt’ora non ho idea di come le cose vadano in superficie. Se il mondo oltre questo cielo d’acqua nera è stato distrutto o la misteriosa minaccia è stata debellata. Non so come sta la mia famiglia, così come non so se siano sopravvissuti, nel caso in cui Juneau sia stata ridotta come Sitka.
«Void! Non farlo! Moriremo tutti!»
La voce. Quella stupida voce che sta venendo a prendermi non ha ancora capito che siamo già tutti morti comunque. Quali chance potremmo avere di salvarci? Anche nel caso in cui sapessero quale sia la nostra precisa posizione, come potrebbero mai arrivare i soccorsi a 1988 metri di profondità? Come giungerebbero in così poco tempo?
E inoltre tutti chi? L’equipaggio è già tutto morto. La voce, a quanto pare, è rimasta indietro di qualche ora. Peggio per lei, sarò ben lieto di mostrarle come raggiungere il resto del gruppo.
Asciugo nuovamente il sangue colatomi sul viso con il dorso della mano; l’arma ancora saldamente stretta. Con sconcerto mi accorgo di una sostanziale differenza: tra la mie mani non c’è più una comune pistola d’ordinanza, ma una pistola lanciarazzi. Chiudo gli occhi e scuoto la testa, lasciando che alcune gocce di sangue vadano a schiantarsi al suolo metallico come una pioggia vermiglia. Quando li riapro mi accorgo che l’immagine non è cambiata e che continuo ad impugnare quella dannata lanciarazzi. Impossibile, mi dico, ho visto con i miei stessi occhi il caricatore vuoto.
Avverto improvvisamente un secondo suono, proveniente dall’esterno, dalla tenebra degli abissi. Qualcosa di grosso è appena passato accanto al sottomarino. Non ne ho paura, sono qui dentro e niente di ciò che c’è fuori può nuocermi... sebbene sappia che non è così. Non ne ho timore perché so di essere al sicuro. Sono tranquillo perché sono consapevole di ciò che fin’ora ho rifiutato.
Il buio, quella coltre nera e infinita, acquosa e dentro cui ogni singolo incubo riesce a prendere vita, vuole che io mi unisca ad esso. Mi sta reclamando e la cosa ancora più strana è che io desidero che ciò avvenga. Perché? Forse perché so che anche nella tenebra più oscura esiste una scintilla di luce; quella stessa luce che potrebbe permettermi di rivedere le persone che amo e che forse potrebbe condurmi nuovamente in superficie.
«Void! Ci condannerai! I soccorsi stanno arrivando!»
La voce, sempre più vicina, sta provando a fermarmi in tutti i modi, sparando cazzate a raffica. I soccorsi che arrivano. Come no, e io in realtà sono Michael Jackson. Se mi avesse detto che in realtà sono tutti vivi e vegeti e che la mia si tratta solo di una assurda allucinazione dovuta all’enorme ansia avrei anche potuto cred…
E se fosse così? Se realmente si trattasse di uno scherzo mentale? Se in realtà quello che ho creduto di fare non è accaduto realmente e adesso ne sto lentamente prendendo consapevolezza?
Osservo nuovamente la pistola lanciarazzi stretta nella mia mano, ripensando allo strano evento successo poco prima: non era altro che una normale pistola d’ordinanza.
La cosa presente all’esterno del sottomarino sfreccia nuovamente a pochi metri da esso, riportandomi alla piena consapevolezza di ciò che è stato. Nessuna allucinazione, nessun gioco della mia mente. È tutta realtà: sono all’interno di un relitto a 1988 metri di profondità e fuori da qui non c’è altro che l’oceano
Il buio.
Sollevo il braccio.
L’oscurità.
«Cristo Santo, Void! Fermati!»
La tenebra.
Chiudo gli occhi. Il cuore martella in petto come un tamburo suonato da una di quelle tribù indigene nascoste nelle profondità della foresta amazzonica.
La paura.
So bene che cosa accadrà, ma di certo è la cosa più giusta da fare per non impazzire. Sempre che io non sia già impazzito. 
Mi reclama.
«CHARLIE!»
Ascolto tutto.
Mille pensieri rimbalzano nella mia mente, si ripercuotono senza sosta come un’eco.
Trattengo il fiato.
Premo il grilletto.
Riesco solo a sentire il rumore del vetro che si infrange e poi io e gli abissi diventiamo un tutt’uno.