Sì.
Potrei farlo.
Potrei ancora farlo.
Chi potrebbe
impedirmelo, dopotutto? I corpi senza vita dell’intero equipaggio?
Chissà che
spasso sarebbe: tentare di fermami per ben due volte, fallendo miseramente. In
fin dei conti hanno già fallito quando erano in vita, non oso immaginare quanto
possano fare da morti.
Buio, solo
questo riesco a percepire con tutti i miei cinque sensi. Intrappolato in questa
dannata gabbia di metallo non sono in grado percepire nient’altro, se non la
pesantezza dell’aria sempre più priva di ossigeno e che a breve non sarà altro
che la causa della mia morte.
Credo di
capire adesso cosa provò Bolt – il mio porcellino d’india che possedevo all’età
di nove anni – quando, per un sadico dispetto, mio fratello lo rinchiuse
all’interno di un barattolo di vetro che poi sigillò ermeticamente: la povera
bestiola inizialmente osservò dall’interno quel dannato di Jonas, forse anche
con fare scocciato come a volergli dire di smetterla con quei giochetti da
emerito idiota e che si decidesse a crescere; dopo qualche minuto iniziò ad
agitarsi e a cercare di arrampicarsi sulla consistenza vitrea del barattolo,
inutile dire quale insuccesso fu la sua ardua impresa; dopo un giorno e mezzo
morì. Io non vidi nulla di tutto questo, ero al camping estivo di Juneau, ma
quello stronzo non mancò di descrivermi ogni singola scena non appena rincasai.
Mi prese con sé prima che potessi chiudere la porta d’ingresso, avevo ancora in
testa il cappellino dei Malamute Strikers – quello con il numero 6, autografato
da Colin W. Hosmett – e il borsone in mano. Mi condusse nella sua stanza dove,
in bella vista sul ripiano della scrivania, vi era il barattolo con il corpo
privo di vita di Bolt. Cominciai a piangere mentre Jonas mi descriveva
dettagliatamente l’agonia provata dal mio piccolo amico; gli gridai di
smetterla e che lo odiavo ma più la mia voce aumentava di volume più lui si
divertiva a torturarmi psicologicamente.
«Void!»
Un urlo
lontano e distorto mi riporta improvvisamente in questo schifoso buco senza
uscita. Un barattolo di vetro chiuso ermeticamente e un criceto al suo interno
che, invano, cerca una via di fuga.
C’è una
sostanziale differenza però tra me e il caro, vecchio, piccolo Bolt: lui non
aveva questo gioiellino che rimiro in tutta la sua bellezza tra le mie mani. Il
calcio in legno, la canna lucida, il foro alla sua estremità, la sicura posta
sulla parte laterale e, ovviamente, il grilletto immobile ma al tempo stesso
fremente di essere premuto.
È stato frutto
della mia immaginazione? Ho davvero sentito qualcuno pronunciare il mio
cognome? Sembrava così reale e al tempo stesso illusorio, eppure tendendo
l’orecchio non riesco a sentire altro che il silenzio: opprimente come l’oscurità
che circonda il Triton 617 e pressante come l’abnorme quantità di acqua che lo
sovrasta a 1988 metri di profondità. Un abisso che ha sempre teso le sue braccia
tentacolose, come un Octopus di dimensioni enormi, verso questo sottomarino
dentro cui non è rimasta più alcuna traccia di vita. E c’è riuscito, da brava
fottuta piovra gigante, a trascinarci a fondo. Sempre più sotto… sempre più
sotto… sempre più sotto…
«Devo uscire
di qui» sussurro mentre osservo il velo nero e liquido oltre la calotta di vetro
della plancia di comando, all’estremità del sommergibile. Vorrei dare a me
stesso una fievole speranza che tutto possa sistemarsi, ma è uno sforzo
totalmente inefficace e me ne rendo conto quando vedo che non c’è nulla che i
miei occhi possano vedere: solo vuoto. Vorrei anche solo osservare i banchi di
pesci che con simultaneità, alla pari di un gruppo di bravissime atlete di
nuoto sincronizzato, guizzano attorno a questo relitto. Eppure non posso, c’è
solo un enorme nulla e dovrò conviverci fin quando…
Passi.
Ritmici e
possenti, come ticchettii di un orologio dimenticato in un antro cupo e
silenzioso. O come una sveglia ingoiata da un grande coccodrillo. Sì, magari
sarà lui… qualcuno che sta venendo a prendermi, come il coccodrillo che bramava
l’altra mano di Capitan Uncino. Vogliono riportarmi nuovamente lì, in mezzo
agli altri. In quel mattatoio.
«Void!»
Ancora una
volta la voce si ripercuote nei corridoi metallici del Triton 617, arrivando
verso di me in maniera distorta. Il mio cuore accelera i suoi battiti, i quali
come per magia trovano un loro ritmo sincrono con il rumore dei passi che si
avvicinano sempre di più.
Corre.
«Void! No!»
Pigio il
piccolo pulsante presente sulla parte laterale dell’arma, facendo scattare la
molla che mi permette di estrarre il caricatore. Lo osservo, sorrido e scuoto
la testa. Riderei a crepapelle come una iena impazzita se potessi, solo per
appurare di essere totalmente fottuto. Come sospettavo, dopotutto… che gran
bella botta di fortuna! Nessun proiettile, solo uno in canna.
«Merda!» urlo
e in maniera del tutto volontaria, do una testata sul freddo muro di ferro; non
riesco a dosare la mia forza in preda al panico e allo sconforto, e solo dopo
aver effettuato questo gesto mi rendo conto di come la mia lucidità mentale stia
andando in frantumi.
Frantumi… ma
certo.
Comincio ad
avvertire un bruciore lancinante all’occhio destro che chiudo di scatto e
stropiccio con un pugno chiuso. Il sangue ha cominciato a scivolare giù dalla
ferita apertasi con violenza sulla mia fronte: fluido, caldo e rosso scarlatto
come fosse lava.
Sangue. Non
riesco ancora a dimenticare come ne fui ricoperto da capo a piedi prima che
succedesse tutto.
Io non sarei
dovuto neanche essere qui, maledizione! Sarei dovuto essere con la miei cari a festeggiare
il giorno del Ringraziamento.
Ricordo alla
perfezione il profumo inebriante del tacchino ripieno in forno, l’aria di festa
che si riusciva a percepire nell’aria; niente ospiti, solo io e la mia
famiglia. Eppure un ospite arrivò, indesiderato da tutti a partire dal
sottoscritto: una telefonata. Dall’altra parte del ricevitore vi era il mio
diretto superiore che forse non aveva ben capito cosa significasse avere una
settimana di congedo.
‘Non posso,
signore’ gli dissi. ‘È il giorno del Ringraziamento e…’
‘Muovi il
culo, Charlie! Ti voglio al molo trentasette del porto di Sitka, in gran numero
sono già lì e tu sei l’unico macchinista nei dintorni. Smettila di pensare a
quella fottuta festa e fai in fretta.’
E feci in
fretta. Per correggermi, feci più in fretta che potevo. Prima avrei finito,
prima sarei tornato a casa. Quanto mi sbagliavo. Nessuno di noi poteva
immaginare che quel sottomarino ormeggiato sarebbe diventata una bara sepolta
negli abissi.
Non appena
poggiai piede sulla pista d’atterraggio del Rocky Gutierrez Airport fui colto
da uno strano senso di ansia mista a paura, ma non diedi ascolto alla mia parte
all’erta che mi aveva già avvertito. Respirai a pieni polmoni l’aria gelida che
il clima degli ultimi giorni di Novembre era pronto a donarmi, chiusi gli occhi
e mi diressi con il mio bagaglio a mano verso la stazione degli autobus. Il
porto non distava molto, appena una decina di chilometri… più che sufficienti
però a far emergere nuovamente quella vocina che mi intimava di tornare a casa
e mandare al diavolo il mio superiore. Ancora una volta non gli diedi ascolto,
sebbene domande multiple si presentassero incessantemente all’interno della mia
testa, veloci come dei flash di una schiera di fotografi alla prima nazionale
di un acclamatissimo film di Hollywood. Perché avevano necessario bisogno di
me, nonostante avessi preso un periodo di congedo? Per quale assurdo motivo era
richiesta urgentemente la mia presenza? Era forse successo qualcosa? Un evento
di cui non avrei dovuto sapere nulla attraverso le controllatissime reti
telefoniche? O forse era…
Non potei
finire l’ennesima domanda in quanto mi ritrovai schiacciato contro il sedile
posto di fronte al mio. Una frenata improvvisa da parte dell’autista e
successivamente uno schianto violento ne furono la causa. Poi arrivò la prima
esplosione a un centinaio di metri dalla posizione in cui il bus si era
schiantato. Panico. Questo fu ciò che provai insieme agli altri cittadini i
quali iniziarono ad urlare e a correre all’impazzata. Non riuscii a scorgere
niente se non il rosso delle fiamme di una seconda esplosione più distante ma
che mi scombussolò più di quanto non fece quella più vicina.
Mi chiesi cosa
stesse succedendo e tutt’ora, mentre osservo quella patina di tenebra appena
oltre il vetro, non sono riuscito a scoprire quale fosse la risposta.
Corsi a
perdifiato, con una voglia immane di abbandonare il mio borsone e aumentare
quindi la velocità. Mi diressi verso il porto senza badare alla gente che
correva all’impazzata come se la loro città fosse appena stata reduce di un
attacco missilistico. Da quel che potevo saperne non ero andato lontano dal
vero. Stavo per arrivare a destinazione, quando un tir – guidato da qualcuno
che aveva di certo dimenticato l’esistenza di altri due pedali alla sinistra
dell’acceleratore – mi mancò di un singolo metro, evitando uno schianto che mi
avrebbe di certo ucciso sul colpo. Dio solo sa quanto in questo momento avrei
preferito finire sotto quel camion che trasportava materiali infiammabili, ma
il dannato destino si è divertito a prendersi gioco di me, facendomi scostare
all’ultimo istante e bloccandomi di netto non appena il mezzo impattò contro la
stazione di rifornimento all’angolo della strada, la quale esplose in una
frazione di secondo. L’onda d’urto, ustionante e oleosa, mi investì in pieno
sbalzandomi da dove mi trovavo: a mente lucida mi rendo conto che se non avessi
avuto il borsone ad attutire il colpo, con molta probabilità la schiena mi si
sarebbe spezzata come un ramoscello secco sotto la suola di uno stivale. L’aria
era diventata irrespirabile, tra l’elevata temperatura che si contrapponeva al
gelo tipico dell’Alaska e il fetore del gasolio che impregnava ogni singola
cosa. Sentii che stavo per perdere i sensi ma mi imposi di non farlo,
altrimenti sarei rimasto lì e di certo non mi sarei più risvegliato. Mi rialzai
a fatica, abbandonando il borsone e riprendendo a camminare inizialmente come
un ubriacone scombussolato dall’alto tasso alcolico nelle sue vene, per poi
prendere velocità e ricominciare a correre. Urla, fumo e detriti. Questo era
ciò in cui si stava trasformando Sitka, e in quel momento pensai che non sarei
neanche stato testimone di un degrado simile… che avrei perso la vita prima di
raggiungere il molo. Un timore mi assalì improvvisamente: e se fossi arrivato a
destinazione e non ci sarebbe stato nessuno ad aspettarmi? Era una delle
infinite alternative che stavano piombando all’interno della mia mente come
piccoli frammenti di meteorite. Accelerai il passo e finalmente raggiunsi il
molo. Non ebbi neanche il tempo di chiedere cosa stesse succedendo.
Semplicemente mi cinsero un paio di braccia e mi ritrovai all’interno del
Triton 617, pronto all’immersione.
Non riuscii a
capire molto tra il caos generale dell’equipaggio. Sapevo solo che non volevo
andare con loro; volevo tornare a casa per constatare se la situazione vista a
Sitka fosse un caso isolato o no. Le uniche cose che sentii furono termini
scollegati gli uni dagli altri senza un preciso ordine.
Creature.
Caos.
Grand Island.
Nuova Zelanda.
Minaccia.
Dio.
Dio, eh?
Dov’era Dio quando perdemmo improvvisamente energia e il Triton si era ridotto
semplicemente ad un pezzo di metallo sott’acqua che si stava lentamente
inabissando? Dov’era Dio quando la luce si spense totalmente impedendoci di
constatare a quale profondità fossimo arrivati? Dov’era quando chi schiantammo
al suolo? Dov’era quando, constatando che le comunicazioni erano state interrotte,
mi feci prendere dal panico e rubai la pistola del mio superiore puntandogliela
contro? Dove si trovava quando premetti il grilletto? Era lì con noi quando mi
macchiai le mani uccidendo anche gli altri membri del sottomarino?
Tutt’ora non
ho idea di come le cose vadano in superficie. Se il mondo oltre questo cielo
d’acqua nera è stato distrutto o la misteriosa minaccia è stata debellata. Non
so come sta la mia famiglia, così come non so se siano sopravvissuti, nel caso
in cui Juneau sia stata ridotta come Sitka.
«Void! Non
farlo! Moriremo tutti!»
La voce.
Quella stupida voce che sta venendo a prendermi non ha ancora capito che siamo
già tutti morti comunque. Quali chance potremmo avere di salvarci? Anche nel
caso in cui sapessero quale sia la nostra precisa posizione, come potrebbero
mai arrivare i soccorsi a 1988 metri di profondità? Come giungerebbero in così
poco tempo?
E inoltre tutti chi? L’equipaggio è già tutto
morto. La voce, a quanto pare, è rimasta indietro di qualche ora. Peggio per
lei, sarò ben lieto di mostrarle come raggiungere il resto del gruppo.
Asciugo
nuovamente il sangue colatomi sul viso con il dorso della mano; l’arma ancora
saldamente stretta. Con sconcerto mi accorgo di una sostanziale differenza: tra
la mie mani non c’è più una comune pistola d’ordinanza, ma una pistola lanciarazzi.
Chiudo gli occhi e scuoto la testa, lasciando che alcune gocce di sangue vadano
a schiantarsi al suolo metallico come una pioggia vermiglia. Quando li riapro
mi accorgo che l’immagine non è cambiata e che continuo ad impugnare quella
dannata lanciarazzi. Impossibile, mi dico, ho visto con i miei stessi occhi il
caricatore vuoto.
Avverto
improvvisamente un secondo suono, proveniente dall’esterno, dalla tenebra degli
abissi. Qualcosa di grosso è appena passato accanto al sottomarino. Non ne ho
paura, sono qui dentro e niente di ciò che c’è fuori può nuocermi... sebbene sappia
che non è così. Non ne ho timore perché so di essere al sicuro. Sono tranquillo
perché sono consapevole di ciò che fin’ora ho rifiutato.
Il buio,
quella coltre nera e infinita, acquosa e dentro cui ogni singolo incubo riesce
a prendere vita, vuole che io mi unisca ad esso. Mi sta reclamando e la cosa ancora
più strana è che io desidero che ciò avvenga. Perché? Forse perché so che anche
nella tenebra più oscura esiste una scintilla di luce; quella stessa luce che
potrebbe permettermi di rivedere le persone che amo e che forse potrebbe condurmi
nuovamente in superficie.
«Void! Ci
condannerai! I soccorsi stanno arrivando!»
La voce,
sempre più vicina, sta provando a fermarmi in tutti i modi, sparando cazzate a
raffica. I soccorsi che arrivano. Come no, e io in realtà sono Michael Jackson.
Se mi avesse detto che in realtà sono tutti vivi e vegeti e che la mia si
tratta solo di una assurda allucinazione dovuta all’enorme ansia avrei anche
potuto cred…
E se fosse
così? Se realmente si trattasse di uno scherzo mentale? Se in realtà quello che
ho creduto di fare non è accaduto realmente e adesso ne sto lentamente
prendendo consapevolezza?
Osservo
nuovamente la pistola lanciarazzi stretta nella mia mano, ripensando allo
strano evento successo poco prima: non era altro che una normale pistola
d’ordinanza.
La cosa
presente all’esterno del sottomarino sfreccia nuovamente a pochi metri da esso,
riportandomi alla piena consapevolezza di ciò che è stato. Nessuna
allucinazione, nessun gioco della mia mente. È tutta realtà: sono all’interno
di un relitto a 1988 metri di profondità e fuori da qui non c’è altro che
l’oceano
Il buio.
Sollevo il
braccio.
L’oscurità.
«Cristo Santo,
Void! Fermati!»
La tenebra.
Chiudo gli
occhi. Il cuore martella in petto come un tamburo suonato da una di quelle
tribù indigene nascoste nelle profondità della foresta amazzonica.
La paura.
So bene che
cosa accadrà, ma di certo è la cosa più giusta da fare per non impazzire.
Sempre che io non sia già impazzito.
Mi reclama.
«CHARLIE!»
Ascolto tutto.
Mille pensieri
rimbalzano nella mia mente, si ripercuotono senza sosta come un’eco.
Trattengo il
fiato.
Premo il
grilletto.
Riesco solo a
sentire il rumore del vetro che si infrange e poi io e gli abissi diventiamo un
tutt’uno.